“Signori vi annuncio la fine della fisica. Ormai conosciamo tutte le leggi della natura ed i segreti dell’armonia cosmica”, così Lord Kelvin alla Royal Society nel 1900. Soltanto pochi mesi dopo Max Planck scriveva a suo figlio in una lettera del 12 ottobre: “Caro Edwin oggi ho fatto una scoperta importante come quella di Newton”.
Planck aveva scoperto che un corpo caldo emette radiazioni non in modo continuo ma a pacchetti, quanti di energia, cioè quantità finite discrete. Introdusse così la costante universale, quanto elementare di azione, o costante di Planck, che esprime il valore fisso e non frazionabile in cui l’energia di una radiazione è divisa.
Einstein si accostò in maniera netta alla fisica quantistica ed utilizzò l’ipotesi fatta da Planck per spiegare le leggi dell’effetto fotoelettrico; gli ulteriori sviluppi della meccanica quantistica condussero però all’attuale divisione per la quale la Teoria della Relatività generale elaborata da Einstein risulta valida per studiare i fenomeni a livello macroscopico, mentre la meccanica quantistica viene utilizzata per capire l’Universo a livello subatomico. Le due teorie risultano incompatibili tra loro ed è questo il maggiore problema che affligge oggi la fisica moderna.
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La principale posizione candidata a risolvere questa dualità è la Teorie delle stringhe con quale si spera di potere arrivare alla definizione di una Teoria del Tutto.
La stessa Teorie delle stringhe nelle sue formulazioni afferma che “l’universo può accrescersi così rapidamente che configurazioni differenti saranno in grado di esistere fianco a fianco in differenti sottouniversi, ciascuno abbastanza grande da non essere consapevole dell’esistenza di altri”. (1)
Questa estrema sintesi degli ultimi sviluppi della ricerca della fisica significa due dati oggettivi: il primo, è che il tentativo di spiegare l’Universo avviene attraverso la scoperta di leggi specifiche che lo regolano di carattere matematico e geometrico; il secondo, è l’impossibilità del raggiungimento della Verità per la necessaria ammissione di ‘altro,’ fisicamente così distante da noi, da non potere mai averne consapevolezza.
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Ritornando sul mondo e nel mondo, lo spazio “in cui facciamo ingresso da nessun luogo e dal quale scompariamo verso nessuno luogo” (2) secondo la definizione di Hannah Arendt, l’uomo risulta l’agente di un percorso all’interno di una Verità velata alla quale si approssima nella conoscenza mediante l’uso di leggi matematiche che, anche si semplificano progressivamente attraverso lo sviluppo degli studi della fisica avvicinandosi sempre di più alla possibilità di racchiudere il Tutto in un’unica formula, devono arrestarsi innanzi all’evidenza che altro esiste oltre quanto a noi mai raggiungibile.
Alla luce dell’irraggiungibilità della Verità, che ci si svela con la scoperta delle Leggi matematiche che la regolano, subentra la filosofia quale percorso alternativo e/o complementare alla scienza nella ricerca della stessa Verità.
Come deve percorrere l’uomo la via? Che lo conduce dal buio da cui proviene con la nascita al buio in cui scompare con la morte? Ora che la scienza l’ha reso consapevole di trovarsi in una piccola frazione dei vuoti stabili che può ospitare la vita? In un universo “le cui leggi non sono quelle che osserviamo direttamente ma quelle soggiacenti che dipendono dalle forme delle dimensioni nascoste”?
Ancora: riconoscendo che anche l’uomo è parte della Verità non potendo provenire in maniera ad essa estranea e che, nell’Universo di cui è parte, viene conosciuto nei meccanismi che ne regolano la vita del suo corpo attraverso la scienza, ovvero mediante la scoperta di comportamenti matematici, ha l’uomo la possibilità, nella sua anomala condizione di essere con capacità di libero arbitrio, di farsi creatore di una nuova verità, indipendente dall’origine da cui proviene? Oppure deve rivolgersi alle verità rivelate dalle religioni che gli indicano il comportamento normativo da rispettare in funzione dell’altra vita, nuova luce oltre il buio in cui scompare con la morte? O, infine, può decidere di non presumere di ‘sistemare’ la realtà una volta per tutte, ma limitarsi a conoscere e a seguire la natura delle cose?
Non sono queste le domande che lo stesso Einstein si poneva quando scrisse “la fisica ci dice il mondo com’è, non come dovrebbe essere”?
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Per Democrito la felicità consisteva nell’armonia, “ed è stato forse il primo a sostenere che una vita felice non dipende soltanto dalla buona sorte o da qualsiasi circostanza esteriore, ma anche, e persino in misura maggiore, dalla struttura mentale di un uomo…. Una condizione simile è relativamente indipendente dalle circostanze. Si può presentare quando le esperienze di un uomo sono in armonia l’una con l’altra e armonia e proporzione sono presenti nella sua anima”. (3)
Dagli studi etimologici e dalle speculazioni filosofiche il termine armonia può essere inteso come il concretarsi nell’Unità dell’oggettivo e del soggettivo, del fattuale e del psicologico, nel gestimmt sein (essere d’accordo) dell’individuo con ciò che lo circonda, un suo simile o la sua interiorità.
Nella parola armonia vi è anche un costante richiamo alla musica, derivante dalla constatazione della regolarità dei movimenti delle stelle che, per i seguaci di Pitagora, producono una melodia cosmica perché i periodi e le velocità dei moti e le distanze fra i corpi celesti sono regolati da quegli stessi rapporti matematici che definiscono gli accordi musicali armonici, generando suoni consonanti che noi non percepiamo in quanto assuefatti.
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Heidegger ha scritto che “L’Essere nel pensiero viene al linguaggio. Il linguaggio è la casa dell’Essere, e nella dimora di esso abita l’uomo. Il pensatore e il poeta sono i custodi di questa dimora, e il loro custodire è il portare la rivelazione dell’Essere, in quanto essi la portano col loro dire, e al linguaggio l’assicurano”. In quanto casa dell’essere o dimora dell’uomo il linguaggio non può non costituire il termine o il fine autentico del procedere storico dell’uomo, dunque ciò rispetto a cui un cammino e qualunque cammino si dà: effettivamente sembra che in Heidegger ogni cammino sia un cammino verso casa un procedere sempre estatico e progettante che in quanto tale è comunque diretto verso il proprio compimento. (4)
L’identificazione dell’armonia nascosta nel reale non può che avvenire che tramite il linguaggio, con l’individuazione di elementi grafici, ciascuno in sé asemantico, ma che riuniti all’interno dell’inquadratura prescelta, in una stato di equilibrata tensione tra loro, formano la composizione che costituisce il significante. La fotografia è riuscita quando attraverso l’uso del linguaggio figurativo riesce a comunicare un significato di armonia nello spettatore; nel momento in cui si fa realizzazione di un senso.
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La fotografia dell’armonia nascosta perciò è nella scelta di percorrere il cammino della vita verso la casa dell’Essere assolvendo all’ideale heideggeriano di funzione ‘reminescente’ dove risiedeva l’intima unità tra mythos e logos: “Il mythos è quella pretesa che, toccando ogni essenza umana prima di ogni altra cosa e facendolo sin nel fondamento, spinge a pensare a ciò che appare, che sussiste. Logos dice la stessa cosa: mythos e logos in nessun modo entrano tra loro, nell’ambito della filosofia, in conflitto, come crede la storiografia corrente, ma al contrario proprio i primi pensatori greci (Parmenide, Frammento 8) usano mythos e logos nello stesso senso; mythos e logos si confrontano e si scontrano sola là dove né l’uno né l’altro può mantenere la sua essenza originaria”. (5)
“Il nostro corpo […] è un insieme di significati vissuti che va verso il proprio equilibrio”. Dall’occhio, al corpo. Dall’occhio, allo spirito. L’occhio del corpo scopre l’espressione sui paesaggi in cui si posa. Dis-vela i significati che traboccano dal suo attorno corporeo. Il senso sorge, nasce, si leva nel corpo e si stende a illuminare il mondo. Il nostro esser-ci è per Heidegger l’originario e essenziale domandare al mondo. Lo sguardo interroga il mondo. E canta i suoi sensi. (6) “Abbi l’occhio del pittore. Il pittore crea guardando”. (6)
Il mondo comune, correlato di praxis e poiesis, si presenta come un meraviglioso spettacolo mondano: “nulla forse è più sorprendente, in questo nostro mondo, della varietà pressoché infinita delle sue apparenze, del puro valore spettacolare delle sue vedute, dei suoni, degli odori, qualcosa di pressoché dimenticato negli scritti dei pensatori e dei filosofi”. (7)
Presa coscienza dell’imponderabilità della Verità nella quale l’uomo dotato di libero arbitrio costituisce la presenza più enigmatica, amare il mondo significa rinunciare a volere fare coincidere creatore con creato o a svilire l’apparenza lasciandosi dominare dalla metafisica, quanto piuttosto percepire il proprio essere-nel-mondo come appartenenza al mondo, in relazione armonica con il mondo intesa quale condizione che consente agli uomini di avere “la propria dimora sulla terra”.
Si è letto che in Heidegger sembra che ogni cammino sia un cammino verso la casa dell’Essere che è il linguaggio; il Tao è la Via, secondo l’ordine di Natura, non separata dalle vie particolari: la condizione di possibilità, il trascendentale di ogni via individuale; il Cristo è la Via, la Verità, la Vita nel Verbo che si è fatto carne.
Sembrerebbe che l’uomo più che scoprire la Verità sia chiamato a camminare lungo il sentiero della Verità, che lo conduce alla Verità; alla casa dell’Essere: il linguaggio; verso il Verbo.
In questa prospettiva la fotografia dell’armonia nascosta si pone sul sentiero di Habermas, dell’universalità della ragione comunicativa, per testimoniare la presenza di un’istanza di razionalità comune a tutti i soggetti: “La rete della prassi comunicativa quotidiana si estende attraverso il campo semantico dei contenuti simbolici, così come nelle dimensioni dello spazio sociale e del tempo storico, costituendo il medium attraverso cui cultura, società e strutture della personalità si formano e si riproducono”.(8)
La grande via del Tao, come osserva Lao-tzu, “La via veramente via, non è una via costante”. Ci sono “sentieri interrotti” – “serpeggianti ora a destra ora a sinistra”; “chi è senza peccato scagli la prima pietra”, pronuncia il Cristo riconoscendo l’impossibilità di deviare: non abbiamo in noi la capacità di mantenere lungo il nostro cammino un passo sicuro, poggiato sempre e solo sulla grande Via. E ciò che è impossibile noi realizziamo, non può nemmeno essere preteso da altri con la nostra stessa natura.
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La fisica ci mostra l’esattezza e la regolarità tangibile in ogni elemento naturale e la matematica e la geometria sono gli strumenti conoscitivi per leggere il mondo che ci circonda; l’armonia è allora sicuramente una delle stelle comete da tenere d’occhio lungo il cammino, ricordando che alla base di armoníe sta il verbo armózein che significa connettere, collegare, e che la modalità costitutiva dell’essere e dell’operare della Natura è proprio il connettere che si ritrova al fondo di lógos, di xynós e di syllápsis.
Se ci troviamo in “una piccola frazione dei vuoti stabili che può ospitare la vita” che, forse, potrà collassare tra miliardi di anni, non significa che siamo già nell’Eternità? Se “configurazioni differenti sono in grado di esistere fianco a fianco in differenti sottouniversi, ciascuno abbastanza grande da non essere consapevole dell’esistenza di altri”, non significa che siamo già nell’Infinito? L’uomo è un essere particolare perché ha possibilità di libera scelta: uscire dall’armonia o restarci. Il delirio contemporaneo consiste nel presupporsi quale potenziale costruttore di un’altra armonia o anche di una indipendente disarmonia, se si vuole. Determinarsi quale variabile indipendente nella formulazione matematica dell’Universo. Un impegno in cui scompare progressivamente la praxis a favore della poiesis: sottomessa all’utilità per un mondo proprio, alienato dalla Verità.
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Infilarsi nell’armonia significa invece puntare all’eternità ed all’infinito nel riscontro fisico della loro esistenza; poiesis in allineamento con la Natura eterna ed infinita che viene compresa attraverso la praxis. Come Einstein scrisse di Max Planck in occasione del suo sessantesimo compleanno: “Il desiderio di contemplare (…) l’armonia prestabilita è la fonte dell’infaticabile perseveranza e costanza con cui vediamo Planck dedicarsi ai problemi più generali della nostra scienza…. la ricerca quotidiana non trae origine da un progetto o da un programma, ma da un’esigenza immediata”.
C’è un brano musicale dei Genesis che, a mio sentire, riesce a comunicare l’ebbrezza dell’abbandono al Tutto, per sentirsene parte, I Know What I Like, che canta “So quello che mi piace, e mi piace quello che so; migliorando nel tuo armadio, diventando migliore nell’aspetto. Quando il sole batte ed io siedo sulla panchina, sento sempre che parlano. Io? Sono solo una falciatrice di prati – lo vedi dal modo in cui cammino”..
· (1) Il paesaggio della teoria delle stringhe di Raphael Bousso e Joseph Polchinski, LE SCIENZE 435 / novembre 2004.
· (2) Arendt, La vita della mente, p. 99.
· (3) Wladyslaw Tatarkiewicz, Analisi della felicità, p. 38-39.
· (4) Gaetano Licata, L’ordine nascosto, Ed. FrancoAngeli/M. Heidegger, Brief über den Humanismus, [Lettera sull’umanesimo].
· (5) Heidegger, Was heißt Denken, Che cosa significa pensare?, vol I, p. 44.
· (6) Caterina Di Fazio, Corpo e Arte fra Visibile e Invisibile, p. 11/Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della Percezione, p. 219 e Robert Bresson, Note sul cinematografo, Marsilio, Venezia 2008, p. 116.
· (7) Arendt, La vita della mente, cit., p. 100; cfr. anche ivi, p. 119.
· (8) Habermas, Jürgen, Il pensiero post-metafisico, a cura di Marina Calloni, Bari, Laterza.